La notizia, appena vissuta, comunica che dal lenzuolo, che avrebbe avvolto il corpo di Gesù, deposto dalla croce, sarebbero stati asportati i trenta rappezzi e la tela di supporto, detto di Olanda, con cui quasi cinque secoli or sono si ritenne rattopparlo nei buchi causati dall’incendio del 1532.
L’immagine e la suggestione che la notizia ridesta nella memoria e nella coscienza indurrebbero a raccontare di quella gelida alba torinese, in cui con il Cardinal Saldarini ed alcuni esperti del Ministero per i Beni Culturali si decise di traslare la teca contenente la Sindone in luogo sicuro per il tempo dei lavori degli anni Novanta, che comprendevano, anche il restauro della Cappella del Guarini o di quelle interessanti conversazioni con Maria Gabriella di Savoia negli amabili incontri conviviali, al Circolo della Caccia, conditi da lirica enfasi carducciana dal colto anfitrione Falcone Lucifero o, ancora, dagli esiti della preparazione e della partecipazione al convegno internazionale di Sindonologia, promosso dalla Lumsa, nel ‘99 ad Orvieto o, infine e più semplicemente, della commozione incontenibile sempre provocata dalla visione di quei segni di martirio e di morte - e di morte di croce.
Ma qui si vuole soltanto richiamare alla mente quanto è stato
appreso e vissuto in tanti anni di studio e di esperienza, nella teoria
e nella pratica del restauro, perché ci troviamo innanzi ad un «documento»,
di straordinario interesse e di eccezionale valore. E che tale sia la Sindone
lo prova la bimillenaria memoria, formatasi su quella «testimonianza»
affidata alla tradizione fino al XIII secolo ed alla storia quanto meno
dal 1300 ad oggi.
Come si sa, proprio la tradizione narra che quel lenzuolo, che «fotografa»
il Cristo morto, l’avrebbero portato gli stessi Apostoli di Gesù
ad Edessa, ove l’avrebbe custodito il re Albgor e che di lì sarebbe
passato a Costantinopoli, per esservi venerato nella Chiesa di Blacherne,
appositamente costruita. Trasferito, a seguito di un furto, ad Atene, qui
sarebbe stato nuovamente trafugato e recuperato.
Dal 1300 al 1453 e questa è storia - appartenente alla famiglia Charmy, che la custodì nel villaggio francese di Iery. Acquistato da Ludovico di Savoia, fu custodita a Chambery, nella Sainte Chapelle, ove subì l’incendio del 1532 e si operò il restauro con le stoffe che sarebbero state ora asportate. Nel 1587 Emanuele Filiberto portò la Sindone a Torino, ove è conservata da allora nel Duomo, collocata dal 1694, nella Cappella del Guarini. Nel 1983 il re in esilio Umberto II ne fece dono al Papa e da allora ne è custode il Vescovo di Torino. Nel 1997 qualcuno osò installare delle cucine in ambiente attiguo al Duomo per un pranzo di governo. Da quelle cucine si sarebbe propagato l’incendio, che avrebbe distrutto la sacra reliquia se un giovane Vigile del Fuoco, rischiando la vita, non l’avesse salvata.
Dunque, questo bene sulla cui autenticità materica e storica
si sono affannati studiosi di ogni parte del mondo ed innanzi a cui si
sono inginocchiati milioni di fedeli dell’intero orbe, sarebbe stato ora
sottoposto ad un intervento così rilevante?
E ciò nonostante il diffuso convincimento che il «noli
tangere», innanzi alle reliquie non è dettato da mero conservatorismo,
ma dalla consolidata cultura della tutela che ci avverte del rispetto che
dobbiamo non solo del bene in se, ma di quanto la storia ha su esso lasciato,
con segni che sono parimenti testimonianze da conservare.
Chi, ad esempio, oserebbe oggi asportare dalle statue pervenute mutili
dalla classicità greco-romana le integrazioni rinascimentali
e barocche e non solo quelle famose del Bernini? Eppure quelle statue non
configurano quell’«unicum», che è, invece, la Sindone.
Certamente - se la notizia dell’intervento è fondata - ci saranno
state ragioni molto serie e quindi necessità gravi ed urgenti
per intervenire. Sarebbe perciò vivamente auspicabile una sollecita
informazione al riguardo. E così si farebbe ancora una volta - per
parafrasare Spadolini - il Tevere più stretto.